Conoscere l’altro: storia di un cooperante

Considerati i continui flussi migratori in arrivo nel paese, AICEM, da sempre attiva sul tema dell’inclusione, ha voluto capire meglio cosa c’è dietro questi numeri, raccontando le storie oltre gli stereotipi perchè in fondo si aiuta solo chi si conosce.

Ramona Capaldo, da anni impegnata in prima persona, parla della sua esperienza.

“In questo particolare momento l’umanità sta affrontando una sfida che spesso e purtroppo, vede lo scontro diretto delle parti coinvolte; in molti casi senza un motivo reale.

La diffusione di pregiudizi e stereotipi all’interno della società attuale, continua a generare l’innalzamento di barriere che portano a una mancanza di comunicazione, e di conseguenza alla non conoscenza “dell’altro”, favorendo sensazioni come paura, intolleranza e disagio. Solo l’abbattimento di questi pregiudizi e stereotipi può facilitare un percorso diretto al dialogo, alla convivialità e al benessere comune. L’obiettivo di AICEM è di dare maggiore visibilità ai giovani, offrendo gli strumenti necessari per un confronto pacifico che porta a un percorso di crescita personale. La partecipazione al “Social Project Management for Youth Inclution Training for Trainers for African Diaspora Youth Workers” e alla conferenza ADYFE – African Diaspora Youth Forum in Europe” tenutesi a Vienna a Giugno 2015, è stata fondamentale per comprendere al meglio, in che modo lavorare su tematiche riguardanti la diaspora africana.

Ho deciso di essere parte attiva nel processo di sensibilizzazione alla comunicazione e all’accoglienza, sostenendo il lavoro svolto al Centro Policulturale Baobab in via Capua e dalla Croce Rossa a Tiburtina a Roma.

L’attivismo sociale che Roma sta dimostrando in questi giorni lascia chiaramente comprendere quanta volontà e speranza ci sia ancora in una società abitualmente “calpestata”.

Per il 20 giugno, ricorrenza della giornata del rifugiato, sono andata in via Capua, al campo di Tiburtina della Croce Rossa e a Tor Pignattara (noto quartiere interculturale), per incontrare e parlare con giovani rifugiati e immigrati. L’idea di incontrare questi ragazzi parte dalla voglia di conoscere e far conoscere l’altro, in una società dove le barriere sociali sembrano essere sempre più alte. Mi sono interfacciata con vari ragazzi incuriositi dalla mia idea e disponibili a darmi una mano. Ciò che ho visto nei loro occhi è qualcosa che molto spesso ormai tendiamo a dare per scontato, ed è quel barlume di speranza che ci aiuta a cambiare le cose quando non vanno. La speranza di poter ricominciare, di essere protagonisti del proprio presente.

Da un’analisi delle interviste fatte a ragazzi tra i 16 e i 35 anni,  provenienti da Eritrea, Sierra Leone e Nigeria è emersa la seguente situazione:

  • Perché hai intrapreso questo viaggio?

Le risposte maggiormente fornite dai ragazzi sono legate alla privazione di un presente e di un futuro dignitosi, tormentati dalla mancanza di cibo e incessanti conflitti.

“Nessuno vuole morire!” afferma Omar. “Non volevo lasciare casa, ma sono stato costretto! Ho vissuto la guerra. La cosa strana è che in Africa non ci sono fabbriche d’armi; l’Occidente porta le sue armi qui e prende le migliori terre. Non abbiamo più neanche un terreno buono da coltivare, ci tolgono anche il cibo! Sai come si dice? an hungry man, is and angry man…”.

“La mia famiglia non aveva abbastanza cibo per tutti, sono venuto alla ricerca di un destino migliore.” Spiega Samiel, da solo una settimana in Italia.

Mentre chi, per una burocrazia ancora troppo complessa, lenta e obsoleta, molte volte rimane “bloccato” per mancanza di documenti. E’ il caso di Augustine, commerciante nigeriano, portato in Europa con false promesse di lavoro: “Pensavo di fermarmi poco, solo per fare del commercio. Volevo rientrare nel mio paese ma per colpa dei documenti sono rimasto bloccato 12 anni.”

Per quanto le ragioni possano essere differenti, chi è in grado di giudicare cosa sia giusto o sbagliato quando si parla di vita?

  • Cosa ti aspettavi di trovare e cosa realmente hai trovato?

Tutti i ragazzi con i quali abbiamo parlato avevano una buona percezione dell’Italia prima della partenza. Un giovane sedicenne eritreo parla di “ammirazione” verso questo paese. Triste che le prime persone con le quali si è trovato a interagire, lo abbiano forzato con violenza alla foto segnalazione, nonostante le ferite corporali riportate dal ragazzo in seguito al viaggio.

I ragazzi da poco arrivati e accolti in via Capua e a Tiburtina hanno elogiato molto il lavoro svolto da tutti i volontari, parlando di “una buona accoglienza e assistenza; c’è tanto rispetto qui.”

C’è chi invece, da più tempo qui, ha trovato una seconda casa, famiglia, amici, amore, odio o sicurezza e può affermare che “L’Italia è un bel paese perché molto tollerante ma è comunque difficile. Non si conosce l’altro.” o “A volte l’Italia è un paese chiuso che non vuole crescere e imparare. Non si va avanti così…”.

Sono d’accordo, solo tramite il confronto si arriva realmente alla crescita.

  • Cosa ti aspetti che l’Italia possa fare in questa situazione delicata?

Una risposta interessante è stata quella di combattere il razzismo dovuto alla mancanza di conoscenza dell’altro. La soluzione proposta è di formare i giovani nell’ottica di una nuova realtà, verso valori trasversali e condivisi; creando persone capaci di comunicare e dialogare con il mondo che li circonda.

Omar parla di dare l’esempio, combattendo la corruzione così da permettere un cambiamento definitivo: “L’Italia è un bellissimo paese ma ci sono occasioni quasi solo per i privilegiati. […] Bisogna inoltre cambiare la situazione d’incompetenza e ignoranza all’interno delle istituzioni pubbliche; come la mancanza di formazione o di  conoscenza delle lingue. Non si conosce neanche la propria Costituzione!”.

  • Cosa vorresti fare nella vita?

Tutte le risposte sono state le stesse: “Lavorare”. Avere la possibilità di lavorare in regola, non importa dove e cosa, l’importante è averne la possibilità.

L’intenzione di molti è comunque quella di fare ritorno, un giorno, alla propria casa. Come il nostro amico sierraleonese: “Voglio tornare a casa, aprire una fattoria e una stazione radio.”.

L’impressione che ho avuto è che tutto ciò che queste persone chiedono, è una possibilità di sopravvivere. Costrette ad abbandonare i propri sogni, la propria famiglia, la propria casa, la sicurezza… il proprio mondo; perché non c’è prezzo per la vita. Credo che quello che potremmo, e dovremmo, fare è dimostrare il nostro lato umano: l’accoglienza, il rispetto e l’integrazione.”

di Ramona Capaldo

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