La protagonista di questo articolo è Maria Chiara Zarabini, artista attiva dagli anni ‘80 in Italia e all’estero che si esprime in esposizioni personali e collettive, mediante l’utilizzo di tecniche e materiali diversificati. Delle sue installazioni, quello che colpisce, oltre alle emozioni che suscitano, è il messaggio che si cela dietro. Si tratta, spesso, di opere provocatorie rivolte ad una contemporaneità in cui parlare di donne nel mondo dell’arte fa ancora rumore, sebbene il numero di artiste sia aumentato.
Esempio di emancipazione e presa di coscienza, il suo profilo combacia alla perfezione con il progetto EUROMEDITERRANEAN GIRL POWER. Questo programma è rivolto alle donne con l’obiettivo di far acquisire loro conoscenze, abilità e strumenti che permettano di diventare autonome e avviare azioni di cambiamento nella propria società. Nel corso dell’intervista, l’artista Maria Chiara Zarabini si racconta, spiegando l’evoluzione del suo percorso artistico che dalla scultura si è arricchito con la fotografia e la realizzazione di installazioni e video. Si tratta di un dialogo che ripercorre idee, ostacoli e sfide superate. Ci lascia, infine, dei consigli basati su cosa ha funzionato nella sua carriera e sui valori ed ideali che l’hanno portata a realizzarsi come artista e che continuano a guidarla nel suo percorso.
La sua formazione artistica inizia all’Accademia di Belle Arti di Bologna e al D.A.M.S. con una laurea in storia dell’arte. Durante la sua carriera ha sempre tenuto in piedi due realtà: quella creativa, tramite mostre, iniziata da giovanissima; e quella didattica insegnando storia dell’arte.
Lo sviluppo dell’idea è il momento cruciale, Maria Chiara Zarabini, infatti, rivela il profondo lavoro di ricerca, anche bibliografica, tramite il quale l’idea si arricchisce e si differenzia arrivando alla sua forma finale.
Ceramista?, scultrice?, pittrice? La Zarabini non si definisce in nessuna di queste categorie: rappresenta ogni sua idea con gli strumenti che ritiene più appropriati ad esprimerla.
Perché ha scelto questo percorso e come ha iniziato la sua carriera?
Appartengo ad una generazione che cercava una propria giustificazione esistenziale, per me è arrivata grazie a questo lavoro. Sapevo di voler fare l’artista fin da bambina, ma non ero a conoscenza di cosa questo volesse dire a livello imprenditoriale; ancora oggi sembra strano sentirmi definire come imprenditrice perché appartengo ad una generazione che non è stata preparata a quest’approccio. La prima mostra, infatti, è stata organizzata nel 1981 fra gli amici dell’Accademia che avevano la possibilità di accedere al Magazzino del Sale a Cervia, una realtà museale al tempo quasi fatiscente. Quello che facevamo era imitare esempi o approfittare di conoscenze cercando di entrare in contatto con le gallerie, ci si creava da sé. Operazioni estremamente difficili negli anni ‘80 che hanno portato ad una generazione di artisti, la mia, fortemente ignorata.
Come mai era così difficile entrare in contatto con le gallerie?
Serviva l’appoggio di qualche conoscenza per arrivarci e comunque non era una garanzia di successo: si stava in attesa moltissimo tempo con il proprio book per far vedere i lavori e, spesso, i galleristi trovavano delle scuse per non ricevere l’artista.
Era un contesto svilente e difficile, che oggi dovrebbe essere cambiato, uso il condizionale perché ad un certo punto ho smesso di propormi alle gallerie. Ho notato che molti altri artisti hanno abbracciato la mia scelta e percorso una carriera parallela, dedicandosi all’insegnamento come me.
Il percorso professionale che ha intrapreso ha contribuito alla sua crescita personale come donna? In che modo?
Posso affermare di essere cresciuta tantissimo grazie al mio lavoro, non avrei mai immaginato di tracciare il percorso che ho seguito. Si tratta, comunque, di un percorso complesso, soprattutto quando si tocca la sfera della consapevolezza e dell’autoaffermazione: cerco riscontro in quello che faccio e quando non lo trovo faccio fatica a credere che quello che sto facendo sia adeguato o all’altezza della situazione. Per questo al termine imprenditorialità preferisco resilienza, si addice di più a me e alla mia generazione; alla necessità continua di definirsi a livello identitario perché l’emancipazione resta una parola che non sempre si concretizza.
Si è trovata ad affrontare delle sfide o delle difficoltà in ambito lavorativo (oltre a quelle di cui mia ha già parlato relative alle gallerie) in quanto donna?
Appartengo ad un settore in cui la discriminazione c’è a tutti i livelli, nel mio caso, forse, il fatto di essere donna ha inciso di più. Il contesto di gallerie, di mercato, di visualizzazioni, ecc. porta a fare delle scelte, io ho deciso di andare avanti per la mia strada. Ritengo che la cosa importante sia l’affermazione della propria creatività, indipendentemente dal riscontro economico. Oggi, anche se l’artista è libero di scegliere e di fare, deve comunque rientrare nell’ambito di una cornice, cosa che a me riesce difficile.
Il fatto di dover rispettare determinati canoni o scendere a compromessi influenza il suo non volersi incasellare in un ambito specifico?
Credo che l’arte sia qualcosa di diverso dalla quotidianità, può essere anche aggressione a livello mentale e oggi sembra si voglia seguire la filosofia del “non voler turbare”, o comunque del rimanere sempre nell’ambito di una certa concettualità, come se ci fosse timore di imporsi. Io, invece, sono dell’idea che la parte concettuale debba portare ad un prodotto finale che sia tangibile e concreto, con una sua stimolazione.
È molto interessante l’immagine dell’arte come aggressione…
Spesso dei miei lavori dicono che turbano l’osservatore. Io semplicemente mi esprimo, come ogni artista interpreto qualcosa che sento senza rendermi conto di essere aggressiva. Ognuno, in base alla propria sensibilità, interpreta l’opera.
A me ha colpito molto la sua installazione “L’urlo e il fruscio”, me ne può parlare?
È un lavoro che ho realizzato nel 2015 cimentandomi con la ceramica, a cui ho aggiunto una parte sonora realizzando dei bronzi che tintinnano. Quando l’ho presentato online sulla rivista Artestetica.org, ho montato anche un video con delle poesie scritte da me.
Il progetto si chiama l’urlo perché nasce dalla rabbia interiore che provavo nel momento in cui l’ho pensato, mi sono sentita emarginata come donna e come essere che ha bisogno di esprimersi attraverso l’arte. La sensazione è stata quella di avere le corde vocali tagliate e di dover utilizzare un’altra parte del corpo per urlare la mia rabbia: la vagina. Ho trasformato la vulva in grandi megafoni in grado di amplificare il mio dissenso. Gli esemplari in bronzo sono dei tintinnabula, delle vulve che hanno un campanellino d’argento che tintinna e che ho realizzato prendendo spunto dai tintinnabula pompeiani, utilizzati fuori dalle porte per scacciare gli spiriti maligni. Quelli avevano forma fallica, io ho rappresentato la versione femminile.
Il fruscio, invece, ha a che fare con le stoffe; quando si parla di vulva non si può escludere l’aspetto più erotico, inteso nel senso creativo del termine e non legato alla fecondità.
Devo confessare che è stato un lavoro veramente liberatorio, ho sperimentato su me stessa la proprietà terapeutica dell’arte.
Parlando, invece, di soddisfazioni personali e di obiettivi raggiunti, ne può annoverare qualcuno?
C’è stata un’occasione in cui mi sono messa alla prova e che sono riuscita a gestire da sola nel 2013, quando ho occupato con il mio lavoro uno spazio espositivo di 1500 mq a Faenza. L’aver portato a termine un progetto complesso e il ricevere una risposta positiva da parte del pubblico che veniva a vedere la mostra è stato appagante.
Un’altra occasione è stata quando ho esposto a Vimercate, presso l’associazione culturale “Lo spazio è arte“, nel 2010 presentando un progetto realizzato con reti metalliche. Si trattava di una sorta di corredo funebre che avevo realizzato per me in rete di alluminio e che, di nuovo, mi ha dato molta soddisfazione.
Per lei cosa ha funzionato nel suo lavoro e qual è stato il momento decisivo o di svolta nella sua carriera?
Il primo momento di svolta è stato quando, negli anni ’80, ho capito che dovevo realizzare delle cose tridimensionali. La lampadina mi si è accesa mentre entro in laboratorio e ho creato un telaio in legno che ho poi ricoperto con una tela; avevo capito che quella era la mia strada, tanto da lavorare per anni con strutture tridimensionali.
Il secondo passaggio, il più importante, risale agli anni 2000. In quel periodo ho deciso di tagliare i ponti con il tipo di educazione ricevuta a livello accademico, un tipo di educazione legata ad un disinteresse completo nei confronti delle figure femminili. Le artiste donne non si studiano mai, così ho iniziato a documentarmi per conto mio. Mi si sono aperti una serie di mondi nuovi e, intorno al 2000, ho capito di dover iniziare a partire da me, che il mio corpo faceva parte di questa esperienza e, quindi, gradualmente e attraverso le performance l’ho fatto rientrare nel mio percorso.
Che consigli si sente di dare a chi vorrebbe intraprendere una carriera simile alla sua?
Forse una ricetta unica non c’è. Sicuramente è utile una forte necessità interiore di esprimersi, ma anche cercare di individuare un percorso serve molto. Lo studio è molto importante, questo manca un po’ alle nuove generazioni che, spesso, realizzano delle cose senza rendersi conto che sono già state fatte anni prima e questo è indicativo del fatto che hanno guardato poco in giro, hanno studiato poco. Studiare significa avere la possibilità di capire che un’idea non è sempre innovativa e, nel volerla riproporre, bisogna decidere se riprendere lo stesso punto di vista o cambiarlo. Non farsi condizionare è un altro aspetto importante, anche se ci sono pressioni da parte di altri, ognuno deve andare avanti di testa propria; se ci si sbaglia, non succede nulla, gli sbagli sono fondamentali.
Ci vuole forza per riuscire a proseguire per la propria strada…
Servono sia forza che indipendenza economica, come dice Virginia Woolf. Per poter dire dei “no” ed essere liberi di fare ciò che si vuole contando su sé stessi, c’è bisogno di garanzie. Questo, per molti, vuol dire avere più attività.
Un’altra cosa importantissima è la condivisione. Condividere le proprie esperienze è fondamentale e gli artisti, invece, tendono ad isolarsi. Io stessa non ho avuto questa fortuna, se non con pochissime persone.
A cosa sta lavorando adesso?
Adesso lavoro sulla memoria, non in generale ma sulla mia. Un lavoro complesso, che mi ha fatto tribolare parecchio perché sono ritornata, dopo tantissimi anni, alla pittura. Avevo abbandonato questa tecnica per privilegiare altri materiali e l’ho ripresa perché la memoria è legata ad un’immagine, a qualcosa che ti affiora alla mente. L’immagine andava bloccata, non ritenevo opportuno utilizzare la fotografia e ho ripreso la pittura che mi ha imposto una lentezza esecutiva legata all’affiorare del ricordo. Alla fine, però, non ho dipinto dei quadri ma ho realizzato delle strutture tridimensionali, come dei poligoni, dipinti con immagini di oggetti, sogni, ricordi, scritte.